La dinamica del risparmio ha subìto un’importante trasformazione nel corso degli ultimi anni: il denaro “immobile” non piace più a nessuno, a quanto pare, se è vero come è vero che le banche (eccezion fatta per quelle on-line) persistono nella loro opera di abbattimento degli interessi applicati ai conti correnti. Per contro, i BOT (acronimo di Buoni Ordinari del Tesoro) continuano, nonostante tutto, a “tirare”. Ma perché mai i titoli del debito pubblico continuano ad essere tanto apprezzati? La soluzione è presto fatta: come sempre, trattandosi di economia, è una mera questione di opportunità.
Investire in BOT significa – ad oggi – portare a casa, in quella che possiamo definire “la migliore delle ipotesi”, interessi pari a un decimo di punto percentuale. L’ultima asta pubblica, datata 28 luglio, ha visto collocare sul mercato titoli semestrali ad un prezzo medio ponderato di 99,701. Tenuto conto della ritenuta fiscale, che è pari al 12,5% (e questo vale per tutti gli investimenti finanziari), il prezzo sale a 99,74 ogni 100 di valore nominale. Questo significa avere un interesse applicato pari allo 0,52%, ma il problema è che il calcolo di tasse e gabelle non è finito qui: bisogna tenere infatti conto delle commissioni bancarie, pari a un massimo dello 0,2%. Facendo un totale, il rendimento di un singolo BOT semestrale scende così alla misera quota di 0,12%.
Il problema è che altrove la situazione non è migliore, anzi. Le banche, infatti, hanno proseguito nel loro percorso di abbattimento degli interessi corrisposti. Per giunta, a fronte di un incremento delle spese di gestione. Negli ultimi sei mesi sono stati molti i risparmiatori che si sono visti recapitare a casa una lettera contenente le condizioni denominate “proposta di modifica unilaterale del contratto”. Finanche all’estremo di chi si è visto offrire un rendimenti di 1 €uro ogni 10mila di giacenza. E’ per questo che, nonostante i rendimenti non siano più quelli degli inizi degli anni ’90, i BOT continuano ad essere un prodotto gradito. Tanto più ora, con la crisi a rivalutare il ruolo dello Stato come garante e debitore.