Di più ma meglio. In questo 2010 che si appresta a finire negli archivi contrassegnato, almeno in ambito economico, dalla parola “incertezza” (come dimenticare i rischi che abbiamo corso quando la Grecia si è trovata sull’orlo del baratro in Aprile, e dopo di lei le situazioni quantomeno zoppicanti di Spagna, Portogallo e Irlanda), negli Stati Uniti hanno continuato a fallire le banche, essenzialmente le più piccole, secondo un ritmo impressionante e mai visto a memoria d’uomo. Lo scorso sabato, le autorità di controllo e garanzia statunitensi hanno infatti posto i sigilli ad altre tre banche decretandone, nella sostanza, la chiusura e la scomparsa dall’orizzonte finanziario e del risparmio gestito.
Il numero complessivo dei crac registrati nel 2010, con questi ultimi episodi, è stato portato fino alla poco lusinghiera quota di 142 episodi, riscrivendo (come era nell’aria, ma finché non v’è certezza si è sempre portati a sperare per il meglio) il record fatto registrare lo scorso anno quando a fallire erano state “solo” 140 banche. Il tutto in un quadro economico ancora incerto e politico difficile da decifrare, con la sconfitta dei democratici alle elezioni di Mid Term che hanno sancito il ritorno alla Camera di uno speaker repubblicano e un possibile impasse nell’azione di riforma (per la verità sino a questo momento un po’ incerta) portata avanti dal Presidente degli USA, Barack Obama.
C’è però un dato che ci può far sorridere, almeno in parte: se è vero, infatti, che i fallimenti sono stati complessivamente di più per numero rispetto alla rilevazione dell’anno precedente, è altrettanto vero che essi hanno interessato banche di dimensioni più piccole e coinvolto somme di denaro decisamente inferiori per quanto concerne il “salvataggio” di tutto quello che sono i diritti dei risparmiatori (se una banca fallisce, lo Stato si incarica della tutela dei suoi clienti): il dato, decisamente più basso, segna 89,3 miliardi di dollari di “intervento” contro i 169,7 dell’annata immediatamente precedente.