Atipico. Roba che l’essere esclusivi, unici potrebbe essere la più grande virtù. Invece accade che “atipico” diventi sinonimo di precario. Il tempo di una crisi, l’istante di una legge (quella Biagi) interessante solo nelle intenzioni. Perché poi – come accaduto con l’euro, nel 2001 – non basta solo definire la norma e assumere una scelta: legiferare è un attimo. La complessità, invece, sta tutta nel fatto che ogni innovazione giuridica va contestualizzata, gestita, disegnata sulla pelle della società come fosse un abito. E nello specifico, è accaduto che la politica abbia adempiuto alla funzione più agevole trascurando quella più importante. Atipico. Avrebbe potuto garantire uno slancio all’occupazione e dare respiro ai destini di milioni di giovani, di lavoratori: sarebbe bastato rispettare il principio.
Altri Paesi, e con successo, lo fanno: il contratto a progetto, a tempo, di collaborazione. Esistono qui e altrove. Solo che altrove – l’Europa è in tal senso valido esempio – la caterva di contratti atipici garantiscono al lavoratore stipendi più elevati, professionalità certificata, crescita riconosciuta. In Germania, per esempio. Dove il ricorso all’atipicità contrattuale è un valore aggiunto per il lavoratore e per l’azienda. L’Italia può solo sognarlo (per ora): perché da noi le tipologie contrattuali differenti dal legame a tempo indeterminato hanno fatto soprattutto il gioco di una sola tra le due componenti. E a beneficiarne, non è certo stato il lavoratore.
Atipico è sempre stato ciò che si discosta dalla norma consueta. Oggi il termine, l’aggettivo, smussa sempre più i confini che esistono con il significato di un secondo attributo. Precario. E’ pleonastico ribadirlo, ma col tempo ciò che è atipico si sovrappone a ciò che è precario. E al precario vengono impediti i canonici accessi della società civile. Futuro, famiglia, casa, progetti: sono assiomi che vengono a mancare con estrema facilità. A volte, dall’oggi al domani.
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